martedì 31 marzo 2015

BIOTECNOLOGIE IN AGRICOLTURA

Le biotecnologie rappresentano un metodo in più a disposizione dell’agricoltura: esse rendono possibile l’inserimento nelle piante di specifici geni, anche provenienti da specie assai diverse, la cui funzione è nota, affinché questi vengano espressi ed ereditati nelle generazioni successive. Il miglioramento genetico quindi non è altro che un sistema per ottimizzare la selezione naturale. Le tecniche biotecnologiche applicate in agricoltura stanno portando alla “costruzione in laboratorio” di nuovi alimenti i cosiddetti “cibi transgenici”; questi ultimi si presentano come cibi migliorati dal punto di vista della durata, del gusto, del valore nutritivo (più vitamine, sali minerali, meno colesterolo, meno grassi, ecc.), che potrebbero potenzialmente risolvere le piaghe che affliggono i paesi sottosviluppati. Le piante transgeniche sono quelle in cui è stato introdotto un gene estraneo che può provenire dalla propria specie o da altre specie. I pomodori, come le mele, le banane e molti altri frutti, continuano a maturare anche dopo la raccolta. Gradualmente cambiano colore, consistenza, sapore, fino a diventare immangiabili e marcire. L’intero processo avviene per azione dell’etilene il quale è contenuto in un ormone della crescita e innesca quelle reazioni interne di maturazione che degradano le pareti cellulari della frutta e le espongono agli agenti esterni. La soluzione biotecnologica a questo problema è molto semplice: inibire tramite alcuni geni la produzione di etilene nelle piante, rallentando drasticamente la maturazione dei frutti. Vediamo allora nel dettaglio come avvengono questi “trasferimenti di geni”. La tecnica più diffusa per introdurre geni nel nucleo delle cellule vegetali, si basa sulla capacità di un batterio, l’Agrobacterium tumefaciens, di trasferire parte del proprio patrimonio genetico alle piante che infetta. Questo parassita attacca le radici e introduce nelle cellule un plasmide1 che induce la formazione di un tumore, il “callo del colletto”. Il plasmide si comporta nella cellula vegetale come un disco di programma in un computer, obbligando la pianta a produrre tutto che è codificato nella propria sequenza di acido nucleico, a seguito di un’integrazione dell’informazione che è permanente. Manipolando il DNA del batterio, in modo da eliminare i geni che provocano la malattia nella pianta e sostituendoli con geni portatori dell’informazione genetica che si desidera trasmettere alla stessa, si ottiene una pianta con le caratteristiche desiderate. Secondo molti ambientalisti il rilascio in natura di organismi geneticamente modificati è pericoloso, perché è impossibile valutare in laboratorio l’interazione tra il nuovo essere e l’ambiente. I rischi riguardano la comparsa di “supererbacce” e di “superparassiti” , la nascita di nuovi ceppi di virus pericolosi o di malattie resistenti agli antibiotici, l’estinzione di specie naturali, il diffondersi di allergie ai nuovi cibi. Greenpeace afferma: “Gli organismi viventi si riproducono e si diffondono ma non possono essere revocati, rilasciatene uno sbagliato nell’ambiente e il disastro sarà irreparabile”. La modificazione genetica degli organismi in sé non è né buona né cattiva: dipende solo dall’uso che se ne vuole fare. Se ci sarà un approccio onesto e rispettoso verso chi dovrà usufruirne, ci potranno essere benefici per tutti.

Green Biotech : FITORIMEDIAZIONE

Cosa è la Fitorimediazione? 

La Fitorimediazione (LINK) è un processo biologico che, attraverso l'attività di organismi vegetali, rimuove gli inquinanti dal suolo, dai sedimenti e dalle acque.

da: http://www.corriere.it/Primo_Piano/ambiente/2012/05/28/pop_fito.shtml
Quali sostanze inquinanti rimuove la fitorimediazione?

Le sostanze che inquinano l'ambiente e contaminano il suolo sono composti organici ed inorganici, metalli pesanti quali piombo, cadmio, nickel, zinco e sostanze prodotte sinteticamente come le xenobiotiche. Le
 piante
 promuovono
 una
 grande
 varietà
 di
 processi
 biologici
 che
 vengono
 sfruttati
 per
 la
 bonifica
 di
 aree
 inquinate:

  • estrazione dei metalli e delle sostanze organiche dal suolo
  • accumulo e trasformazione dei composti per mezzo di: lignificazione, volatilizzazione, metabolizzazione e mineralizzazione
  • utilizzo di enzimi per scindere sostanze complesse in composti più semplici.
 Quali piante vengono impiegate ? 
Le piante che vengono utilizzate nei trattamenti della Fitorimediazione hanno particolari caratteristiche ovvero resistono alle alte concentrazioni di composti organici ed inorganici e ai metalli; esse sono capaci di assorbire tali inquinanti e trasformarli in altri composti meno tossici, e in alcuni casi riescono a degradarli completamente grazie al rilascio da parte delle piante di "essudati radicali", enzimi
 e
 composti
 chimici
 del
 carbonio;
 essi stimolano
 la
 degradazione
 dei
 composti
 organici
 nella
 rizosfera
 (porzione
 di
 sottosuolo
 in
 prossimità
 dell’apparato
 radicale).
 In
 altre
 parole,
 le
 sostanze
 rilasciate
 dalle 
radici
 delle
 piante
 facilitano
 e
 potenziano
 l’attività
 di
 degradazione
 svolta
 dai
 microrganismi
 presenti
 nella
 rizosfera.

Le specie di piante maggiormente utilizzate nei trattamenti della Fitorimediazione sono





• Alberi da Pioppo: fungono da "pompe naturali" in quanto assorbono i pesticidi ed erbicidi tossici dalle falde acquifere.






• Tra i pioppi, le specie più adatte sono Populus deltoides e Populus trichocarpa.




Tipologie di Fitorimediazione 

La Rizodegradazione è applicabile
 nel
 caso
 di
 contaminanti
 organici 
e
 di 
idrocarburi
 petroliferi.


Nel
 processo
 di
 Fitostabilizzazione,
 l'immobilizzazione dei contaminanti ne
 impedisce
 la
 migrazione
 nelle
 acque
 sotterranee
 o
 l’ingresso
 nella
 catena
 alimentare.

Con
 la
 Fitoaccumulazione
 gli
 inquinanti
 non
 vengono
 distrutti
 ma si
 accumulano 
nei
 tessuti
 della
 pianta.
 Questo
 metodo
 è
 utilizzato
 prevalentemente
 nel
 caso
 di
 contaminazioni
 da
 metalli
 pesanti.

Vi sono alcuni fattori che influenzano l'attività dei vegetali impiegati in quanto devono trovarsi in un terreno con le condizioni adatte; questi fattori sono: il pH  e la tessitura del terreno, la concentrazione di sodio, la potenza di irrigazione.

Quali i limiti?
Uno
 dei 
limiti
 della
 fitorimediazione
 è
 la
 necessità
 di
 tempi
 molto
 lunghi
 per
 la
 realizzazione
 e
 il completamento
 del
 processo.
 Infatti
 per
 ottenere
 una
 significativa
 riduzione
 dei
 livelli
 di
 concentrazione
 delle
 sostanze
 contaminanti
 occorrono
 tempi
 estremamente
 lunghi,
 variabili
 dall’ordine
 dei 
mesi
 fino 
alle 
decine 
di
 anni. L'efficacia dà però eccellenti risultati in quanto la fitorimediazione è adatta anche laddove ci sono alti livelli di contaminazione.
Un altro limite è la
 potenziale
 introduzione
 di 
sostanze 
contaminanti
 o
 di
 loro 
metaboliti 
nella 
catena 
alimentare.

http://greenchallenge.it/articoli/fitoremediation.pdf

FIORI TRANSGENICI: PIU' LONGEVI, PROFUMATI E CHE CAMBIANO COLORE

Il fiore che cambia colore se lo innaffi con la birra

Un'azienda biotecnologica ha creato una petunia transgenica, che da bianca diventa rossa o viola nel giro di 24 ore. La Petunia è una delle piante ornamentali più diffuse sui balconi di mezzo mondo. A determinare il suo successo commerciale sono le generose fioriture primaverili, che spaziano dal bianco candido al viola, includendo un'estesa gamma di altre tonalità. Una startup americana, chiamata Revolution Bioengineering (RevBio), è però andata oltre: attraverso un processo di ingegnerizzazione genetica ha creato una variante del fiore (ribattezzata Petunia Circadia) in grado di cambiare colore in 24 ore. Per innescare il meccanismo bisogna fornire alla pianta un po' di alcol etilico, innaffiandola, ad esempio, con un goccio di birra. 

PIANTA TRANSGENICA. In natura la tinta dei fiori è regolata da pigmenti colorati, denominati antociani (o antocianine). Se una Petunia è bianca, dipende dal fatto che uno degli enzimi coinvolti nella biosintesi delle antocianine non funziona correttamente, bloccando di fatto il processo che "pittura" il fiore. Keira Haven e Nikolai Braun, i due biologi molecolari fondatori di RevBio, hanno studiato a fondo questa via metabolica per creare un organismo geneticamente modificato (OGM): in pratica hanno modificato artificialmente il DNA della pianta (ricombinandolo con dei geni di lievito) per fare  in modo che uno specifico enzima si attivi o disattivi a comando, in modo analogo a quando si schiaccia l'interruttore di una lampadina. Nello specifico, l'enzima si accende dopo che la petunia bianca ha assorbito una soluzione acquosa contenente etanolo: l'alcol (la birra di cui parlavamo è solo una delle declinazioni possibili) mette in moto la catena di montaggio delle antocianine e nel giro di un giorno i fiori diventano, ad esempio, rossi. Il meccanismo, dicono gli scienziati, è reversibile: è sufficiente inumidire il terriccio con acqua liscia per tornare alle condizioni di partenza.

Nuove scoperte scientifiche. Dagli Usa la soluzione per allungare la vita ai fiori recisi.
Fare in modo che i fiori recisi durino più a lungo e si mantengano freschi per molti giorni utilizzando un virus geneticamente modificato (OGM). E’ l’obiettivo del progetto di ricerca dell’Agricultural Research Service (Ars) degli Stati Uniti.   
I ricercatori dell’Ars, coordinati dal fisiologo vegetale Cai-Zhong Jiang, stanno cercando di disattivare i geni dell’invecchiamento delle piante utilizzando il virus della necrosi striata, responsabile di una malattia che colpisce le foglie. La tecnica, chiamata “silenziamento genico indotto da virus”, consiste nell’introdurre nelle piante il virus  allo scopo di attivarne i meccanismi di difesa naturale che portano allo spegnimento del virus stesso e dei suoi geni. Poiché i geni che fanno invecchiare le piante, diventati parte del corredo genetico del virus, vengono disattivati dalla pianta stessa.
Gli esperimenti sono stati condotti sulla petunia viola. La pianta è stata esposta al virus Gm nella quale era stato introdotto il gene che controlla il colore e un frammento di un gene responsabile della produzione dell’etilene, sostanza che causa l’invecchiamento delle piante. Come risultato si sono ottenuti fiori con macchie bianche e con meno etilene rispetto alle piante esposte al virus non modificato. Questa, per i ricercatori, potrebbe essere la prima dimostrazione che la strategia funziona.


Fiori OGM per i profumi del futuro

Fino a poco tempo fa, la domanda che accendeva discussioni tra nasi, critici del profumo, perfume-bloggers, profumieri e consumatori, era sempre la solita: meglio le note di sintesi o quelle naturali?” Grande dilemma. “Meglio la chimica che è più stabile” oppure “meglio le note naturali che sono più sincere, nessuna nota di sintesi potrà mai ricreare perfettamente l’odore della natura”In un futuro molto prossimo, invece, la domanda che ci ritroveremo sulla punta del naso, annusando un profumo, sarà “OGM o naturale?“. 

Nel corso degli ultimi anni, molte varietà di fiori hanno perso il loro profumo per colpa dell’inquinamento e per i cicli di coltivazione ma un team di scienziati della Hebrew University di Gerusalemme, attraverso manipolazioni genetiche, è riuscito ad aumentare di dieci volte il profumo dei fiori. Secondo il prof. Alexander Vainstein, responsabile dell’equipe di ricerca, “Il risultato ottenuto con questa ricerca permetterà la coltivazione di fiori transgenici dotati di un’elevata percentuale di profumo e di estrarne l’aroma senza seguire il ritmo naturale della pianta (*), inoltre consentirà la produzione di nuovi componenti aromatici”. Sempre secondo il prof. Alexander Vainstein, l’utilizzo dei fiori OGM nei prossimi anni rivoluzionerà la produzione e la creazione delle fragranze: l’industria essenziera sarà più propensa ad utilizzare oli essenziali estratti da fiori OGM anziché essenze estratte da coltivazioni naturali o molecole di sintesi perché con i “fiori mutanti” diminuiranno i costi di produzione e la resa della materia prima transgenica sarà maggiore rispetto a quella naturale. Infatti, l’alta concentrazione di aroma dei fiori transgenici, riduce di dieci volte il quantitativo di fiori necessari per l’estrazione della loro componente aromatica. Attualmente sono necessarie 5 tonnellate di petali di rosa damascena per ottenere un chilo di assoluta e una tonnellata di fiori per ottenere 1.5 kg d’assoluta di fiori d’arancio.
La ricerca non finisce qui. La stessa equipe è riuscita ad impiantare un aroma in una varietà di fiori senza profumo
"Sinceramente, questa notizia non mi rende molto felice... Un profumo è una poesia che si scrive sulla pelle, gli odori sono piaceri da godere con il naso. Sapere che la fragranza che indosso è realizzata con fiori transgenici, mi fa passare la voglia di poesia e anche il piacere. Mi chiedo, anche, se il sentore di un fiore manipolato geneticamente riuscirà a commuovermi come l’odore notturno del cespuglio di gelsomini che fiorisce selvaticamente d’estate nel mio giardino" (Simona Savelli, autrice articolo). 

(*) L’intensità e l’emissione del profumo dei fiori sono regolate da diversi fattori come il ciclo circadiano (giorno/notte), le condizioni atmosferiche, l’età del fiore e la specie botanica.

 

LA POLEMICA:

Fiori fotocopia sbocciano nelle provette dei laboratori. Non gelano, non sfioriscono, vivono dappertutto e hanno colori e profumi di altre specie.

La produttivita' ha ucciso gli odori


black bacarat da selezione e incroci tradizionali
Selezione genetica e clonazione hanno ormai creato una flora industrializzata e, come reazione,  il mercato comincia a chiedere prodotti tradizionali.  I fiori che colorano i nostri giardini e riempiono i vasi di casa stanno cambiando connotati. Qualche esempio. Le orchidee. Un tempo le vedevamo solo al cinema... Oggi i fiorai sono invasi di tralci di orchidee bianche (tutte identiche) e possiamo più o meno permettercele tutti.  Le viole del pensiero. Erano piccole,  delicate e viola. Oggi sono sempre più grandi.  I ciclamini. Negli ultimi inverni hanno fatto capolino in modo sempre più massiccio da balconi e davanzali di città come Milano. Si trapiantano a settembre e fioriscono fino a aprile, noncuranti che la temperatura passi da sotto zero a +23-24 gradi. I garofani. Dopo anni di oblio, ne sono ricomparsi diversi: piccoli come bottoni, durano a lungo in vaso, senza spampanarsi. Le rose. Sono diventate di moda quelle nere, o quasi. E non hanno profumo. Mentre invece sono pressoché sparite quelle di giardino, profumatissime. «La floricoltura è un' industria. I fiori oggi sono coltivati dai vivaisti in modo più intensivo del grano, per soddisfare le esigenze di mercato», ammette Andrea Allavena, dell'Istituto sperimentale per la floricoltura di San Remo. «Da una parte, i consumatori, tendono ad affezionarsi a un certo tipo di rose, di margherite, di tulipani e vogliono ritrovarli identici sul mercato - continua lo specialista -, dall'altra gli agricoltori, che applicano tecniche intensive, richiedono piante che fioriscono contemporaneamente per raccoglierle tutte insieme». Selezione genetica per la produzione di varietà migliorate e clonazione in laboratorio, sono alla base della floricoltura moderna che permette la riproduzione all'infinito di piante identiche in tempi rapidissimi. L'ingegneria genetica invece non c' entra. «In Europa oggi non si coltivano fiori transgenici come accade, seppure ancora in rari casi, in Australia, Giappone, Stati Uniti. E nemmeno si importano», afferma Allavena. Tuttavia, le ricerche transgeniche, in corso in tutto il mondo, stanno riprendendo, in serra, anche in Italia. All'Istituto sperimentale di San Remo sono nate piante nane geneticamente modificate di margheritone da appartamento. Il mercato però non le ha ancora accolte. 
Roberta Salvadori. DOMANDE E RISPOSTE  
"Le rose «nere» appena comparse sul mercato sono transgeniche"? No. La Black Bacarat, questo è il nome della rosa, detta nera ma in realtà di un rosso scurissimo, è una varietà ottenuta con incroci e selezione tradizionali. 
"Come sono ottenute le rose bluastre in vendita dai fiorai"? In realtà si tratta di rose bianche che i floricoltori immergono in acqua colorata con un colorante blu (anilina) che viene assorbito da fiori, steli e foglie che diventano anch' esse bluastre. 
"Come ma i ciclamini durano tutto l' inverno all'aperto anche se la temperatura va sotto zero"? I ciclamini in genere sono piante che si adattano bene al freddo. Le varietà più resistenti al gelo sono il risultato di selezioni genetiche tradizionali. 
"Perché a volte i fiori recisi del fioraio restano belli tanto a lungo"? Possono essere trattati con sostanze conservanti perché durino di più. Spesso si tratta di sali d' argento diluiti nell'acqua in cui sono immersi gli steli.

L'elisir della lunga vita: il resveratrolo

Introduzione     
Le sostanze chimiche riconducibili alla famiglia degli stilbeni sono presenti in numerose famiglie del regno vegetale, tra cui le Vitaceae, e tra queste la Vitis vinifera. Degli stilbeni, composti fenolici a basso peso molecolare dalle proprietà antifungine, fa parte anche il resveratrolo, rintracciabile nella vite, sia pure in quantità diverse, nei suoi due isomeri trans e cis, che presentano caratteristiche differenziabili, anche in termini di potere antifungino. Il resveratrolo negli ultimi anni si è guadagnato una fama indiscutibile soprattutto in virtù degli effetti benefici che esso, assunto con il vino, avrebbe sulla salute umana. Ma esso è prima di tutto una sostanza di difesa prodotta dalla vite in caso di attacco da parte di funghi patogeni. Vediamo quindi di riepilogare le principali tappe attraverso cui la ricerca è giunta dapprima a stabilirne l'esistenza e in un secondo momento a definire le peculiarità di questa sostanza.

II resveratrolo come fitoalessina    
Il resveratrolo si comporta nella vite come una fitoalessina. Secondo la definizione fornita da Paxton nel 1981, le fitoalessine sono "composti antimicrobici a basso peso molecolare sintetizzati dalle piante ed in esse accumulati in seguito all'attacco da parte di microrganismi". Le fitoalessine sono dunque assenti nelle piante sane, ma si concentrano in corrispondenza del punto di penetrazione del patogeno. Sempre nel 1981, Hart stabilì che le fitolessine risultano coinvolte nei meccanismi di resistenza e/o tolleranza alle malattie da parte delle piante qualora soddisfino i seguenti requisiti:
I. devono essere presenti nelle parti della pianta invase dal patogeno;
2. devono essere presenti in concentrazioni tali da poter inibire la crescita del patogeno in vivo;
3. si devono accumulare nel momento idoneo a favorire il fenomeno di resistenza; 4. mutamenti nelle concentrazioni di fitoalessine nelle piante dovrebbero corrispondere a mutamenti nella sensibilità alle malattie.


La sintesi di fitoalessine nelle piante risulta quindi essere scatenata dall'interazione tra la pianta medesima e un agente patogeno, ma non solo. Esistono infatti anche fattori abiotici (agenti fisici o chimici), che, in condizioni sperimentali o in natura, sono in grado di indurre la pianta a sintetizzare fitoalessine. Si parla in generale di elicitori biotici e abiotici.



Qualcosa di più sul resveratrolo come fitoalessina: gli elicitori biotici    
Riprendendo il concetto su esposto secondo cui gli agenti elicitori della produzione di resveratrolo nella vite possono essere di natura sia biotica che abiotica, vediamo di esaminare brevemente entrambi i gruppi di fattori. In tabella 1 è riportato un riassunto degli stilbeni la cui sintesi viene indotta nella vite da parte degli agenti biotici citati, sulla base della letteratura prodotta in merito sino al marzo 2000.


Elicitori abiotici    
I fattori abiotici in grado di indurre la sintesi stilbeni in Vitis spp. sono riassunti in tabella 2. I raggi ultravioletti in particolare hanno rivestito un ruolo di grande importanza nello studio dei pattern di sintesi degli stilbeni nelle piante. Del resto i raggi UV sono noti per avere l'effetto di intensificare nei vegetali il processo di trascrizione dei geni codificanti per sostanze di difesa.


Tecniche colturali in grado di influenzare la sintesi di stilbeni    
Al momento tre sono i fattori colturali che, in base alle evidenze sperimentali, possono in qualche modo influenzare la sintesi indotta di stilbeni nella vite: la fertilizzazione, la scelta del portinnesto e la forma di allevamento. Nel 1987 Bavaresco e Eibach hanno dimostrato che somministrazioni crescenti di azoto in forma di nitrato di ammonio a piante di vite in vaso riducono progressivamente la sintesi di resveratrolo indotta su dischetti fogliari, in condizioni sperimentali, con l'utilizzo dell'acido mucico come elicitore.
Sempre Bavaresco ha studiato l'effetto della fertilizzazione potassica sull'ibrido interspecifico Castor e sulle cultivar di vinifera Bacchus e Muller Thurgau. Dosi crescenti di fertilizzazioni potassiche mostrano di avere effetto positivo sulla sintesi indotta di resveratrolo nelle foglie di Bacchus e Muller Thurgau.
L'effetto del portinnesto è probabilmente legato alla sua azione sulla nutrizione minerale della pianta.
Secondo studi di Bertamini e Mattivi (1999) anche la forma di allevamento ha un effetto significativo sul livello di resveratrolo valutato in vini di Cabernet sauvignon ottenuti da microvinificazione.

Gli stilbeni costitutivi della vite    
Come già accennato, gli stilbeni contenuti negli organi legnosi della vite (fusto e tralci, vinaccioli, radici e raspi lignificati) hanno natura costitutiva. La tabella 3 riassume i principali stilbeni costitutivi rintracciati nella vite ed i relativi range.



La biosintesi degli stilbeni nella vite: la stilbene sintasi e le biotecnologie      
L'enzima chiave nella sintesi degli stilbeni è la stilbene sintasi, che interviene in una via biosintetica collaterale a quella dei polifenoli, nel senso che ha in comune con questa una sostanza che funge da substrato.
Negli ultimi 15 anni circa sono state prodotte diverse librerie a cDNA per gli enzimi implicati nelle biosintesi di cui sopra. Come è facile intuire, vista l'implicazione degli stilbeni nei fenomeni di resistenza delle piante alle malattie fungine, la stilbene sintasi è stata oggetto di studio per valutare la possibilità di una sua clonazione seguita da trasferimento in specie che non possiedono nel loro patrimonio genetico la codifica per tale proteina. Geni per la stilbene sintasi provenienti non solo dalla vite ma anche da altre specie, tra cui l'arachide, sono stati trasferiti con successo in tabacco, colza, pomodoro e riso. In tutti i casi, le piante rigenerate dalle cellule trasformate hanno mostrato, almeno in condizioni sperimentali, un'aumentata resistenza a numerose malattie fungine.


Il resveratrolo nel vino e i suoi effetti sulla salute  
Prima dell'individuazione del resveratrolo nel vino, alcuni ricercatori si stavano interessando da tempo al vino come bevanda alcolica con funzioni protettive contro le malattie cardio-circolatorie; nel 1990, per esempio, una ricerca dimostrò che il consumo di vino rosso (Bordeaux), ma non vino bianco o etanolo, induceva una ipoaggregazione piastrinica ed un aumento del colesterolo HDL, fattori entrambi positivi per la salute umana. Sulla base di queste evidenze sperimentali, Siemann e Creasy formularono l'ipotesi di un legame diretto tra il resveratrolo e l'effetto protettivo del vino nei riguardi delle malattie coronariche. Sempre nel 1992 la rivista scientifica "The Lancet" pubblicò un'indagine epidemiologica di Renaud e de Lorgeril relativa al paradosso francese. Questi autori studiarono la correlazione esistente tra la mortalità dovuta a malattia coronarica (in uomini e donne, nel 1987) e l'assunzione di grassi di origine animale nella dieta di campioni di popolazione di alcuni stati europei (16) e dell'Australia. Elaborando i dati raccolti con una semplice metodologia statistica (la regressione lineare) si notò come i due parametri studiati fossero direttamente proporzionali, nel senso che quanto più elevato era il consumo medio giornaliero di calorie provenienti da grassi animali, tanto più elevata era la mortalità; i due parametri risultarono quindi correlati. A questa situazione testè descritta sfuggiva la Francia, la cui popolazione campione (città di Lille, Strasburgo e Tolosa) era caratterizzata da un consumo di grassi animali elevato, ma dalla più bassa mortalità per malattia coronarica, rispetto agli altri Paesi indagati.
Questa situazione paradossale è alla base, anzi costituisce il cosiddetto "Paradosso francese". Il passo successivo dei due ricercatori francesi fu quello di capire per quale motivo i Francesi pur mangiando molti grassi di origine animale avessero la più bassa mortalità per malattie coronariche mentre per gli abitanti degli altri stati indagati più grassi animali assumevano, più morivano. Si controllarono altri fattori di rischio per le malattie coronariche, quali la pressione sanguigna, l'indice di massa corporea, il fumo, ma nessuno di questi era più basso in Francia rispetto agli altri Paesi.
Si considerò anche il consumo regolare di vino e si notò come questo parametro fosse in grado di spiegare il "paradosso": i Francesi bevevano più vino degli altri europei e questo poteva controbilanciare gli effetti dell'elevata ingestione di grassi animali. Si ipotizzò che non fosse l'alcool presente nel vino il responsabile di questo effetto positivo, ma altre sostanze non ancora indagate, considerando che altre bevande a base di alcool non avevano datogli stessi effetti del vino. Ad iniziare dal 1992 si assistette, a livello mondiale, ad un fiorire di studi sul resveratrolo, sia sul fronte medico (con lo scopo di investigare gli effetti benefici della sostanza sulla salute umana), sia su quello enologico (con lo scopo di dosare la sostanza nei vini e di studiarne la dinamica).


Le attività, scientificamente documentate, del resveratrolo a livello medico sono le seguenti:
a) attività antiaggregante piastrinica: è stata provata per entrambi gli isomeri trans- e cis (Pace-Asciak e coli., 1995; Bertelli e coli., 1995 e 1996); l'effetto del trans-resveratrolo veniva aumentato quando somministrato assieme al vino, evidenziando una interazione positiva tra la sostanza in oggetto ed altre presenti nel vino;
b) attività dell'adesione di granulociti e monociti all'endotelio (Ferrero e coli., 1998);
c) attività preventiva nei confronti del cancro: secondo studi fatti in vitro, il resveratrolo è risultato legato all'inibizione del processo carcinogenetico nei tre principali stadi di sviluppo. L'attività anti-iniziazione è stata documentata dal suo effetto antimutageno, dall'inibizione della funzione iperperossidasica nell'attività della cicloossigenasi (COX), e nell'induzione degli enzimi "phase II" (Jang e coll., 1997). L'attività anti-promozione è stata evidenziata dagli effetti antiinfiammatori, dall'inibizione della produzione di metaboliti dell'acido arachidonico catalizzata dagli enzimi COX-1 e COX-2, e dal blocco di trasformazioni neoplastiche di fibroblasti di topo indotte chimicamente (Jang e Pezzuto, 1999). L'azione anti-progressione è stata dimostrata dalla capacità di indurre la differenziazione di cellule leucemiche promielocitiche (Jang e coll., 1997).
Secondo Jang et al. (1997) il consumo giornaliero di vino, fino ad un massimo di 375 ml al giorno, fornisce mediamente una quantità di resveratrolo in grado di alterare il metabolismo dell'acido arachidonico;
d) attività antiossidante: è stato dimostrato (Frankel et al., 1993) che il resveratrolo inibisce l'ossidazione delle LDL (lipoproteine a bassa densità). Questa inibizione risulta positiva perché la modificazione ossidativa delle LDL è considerata un evento primario nella patogenesi dell'aterosclerosi. Attualmente questa funzione è stata parzialmente ridimensionata (Frankel e coll., 1995) perché la concentrazione plasmatica di resveratrolo somministrato oralmente è più bassa di quella utile per una attività antiossidante (Bertelli e coli., 1996); è probabile comunque che un uso moderato ma continuativo di vino possa permettere un assorbimento di resveratrolo utile per questa funzione. Ulteriori studi sono in corso, volti a indagare altre funzioni della sostanza sulla salute umana, quali ad esempio il ruolo contro il morbo di Alzheimer ed il suo effetto come fitoestrogeno (Calabrese, 1999) e come regolatore della risposta immunitaria (Falchetti e coll., 2001).
L'aspetto che si vuole enfatizzare, infine, è che alcune attività della sostanza sono esplicabili solo quando il resveratrolo viene assunto assieme al vino, stando a significare che esistono probabili interazioni con altri composti, specie quelli polifenolici che anche recentemente sono stati associati all'effetto preventivo del vino rosso nei confronti dell'aterosclerosi (2001).
 

DNA ESOTICI? NO SINTETICI!

ARRIVA IL DNA SEMISINTETICO: XNA! LA VARIABILE E' LO ZUCCHERO :-)

Gli scienziati per la prima volta sono riusciti a ottenere un sistema di trasmissione dell’informazione genetica basato su acidi nucleici diversi da DNA e RNA, gli XNA. La scoperta (2012) può chiarire le origini della vita: uno di questi acidi nucleici sintetizzato dagli scienziati potrebbe essere l’anello mancante fra il mondo pre-biotico e l'ipotizzato “mondo a RNA” primordiale. La scoperta è di Rosemberg e collaboratori. 

Negli XNA, al posto degli zuccheri ribosio o deossiribosio c’è il treosio (TNA), un tetroso, o anche altri zuccheri. Per il TNA i ricercatori sono riusciti a ottenere un altro elemento essenziale alla trasmissione dell’informazione genetica: le polimerasi. DNA e RNA polimerasi sono enzimi capaci di leggere e trascrivere le normali sequenze di acidi nucleici. In natura, tuttavia, non esistono polimerasi per le molecole di XNA. Però i ricercatori sono riusciti a produrre polimerasi sintetiche che potrebbero copiare il DNA in XNA. 

Diversi XNA possono funzionare come polimeri genetici sintetici, ma gli scienziati non hanno ancora realizzato un sistema genetico sintetico completamente “autonomo” rispetto al DNA. Ciò è sufficiente per rilanciare il dibattito sulle origini della vita. Secondo un'ipotesi, la più semplice molecola di RNA avrebbe preceduto il DNA come mezzo di codifica dell’informazione genetica e i primi esempi di vita si sarebbero basati sull’RNA dato che questa molecola è anche in grado di catalizzare reazioni chimiche, come un enzima. Tuttavia, la comparsa di una molecola complessa come l’RNA da una sequenza di processi casuali a partire da prodotti chimici semplici è da molti considerato un evento improbabile. Secondo i ricercatori, il TNA potrebbe essere un buon candidato al ruolo di intermediario fra il mondo pre-biotico e il mondo a RNA. 



Il primo organismo con DNA sintetico: è un batterio E.coli

Proteine formate da amminoacidi sintetici da usare in ambito diagnostico e terapeutico? E' lo scenario futuro. Per ora, in uno studio pubblicato su Nature, frutto del lavoro di un team di ricercatori guidato da Floyd Romesberg, è stato creato il primo organismo vivente in grado di replicare  DNA non esistente in natura, con basi aggiunte dall'uomo allo scopo di espandere l'alfabeto genetico.

La vita sulla terra in tutta la sua diversità è codificata solo da due paia di basi di DNA, A-T e C-G. Quello che il team di Romesberg ha generato è un organismo che contiene stabilmente queste due più un terzo, innaturale, paio di basi”. Romesberg e collaboratori hanno iniziato a lavorarci alla fine degli anni '90, ma trovare due basi in grado di appaiarsi con un'affinità comparabile a quella delle coppie naturali A-T e C-G, di inserirsi stabilmente nel doppio filamento di DNA, di separarsi e riappaiarsi “a comando” quando necessario e non essere riconosciute come estranee dai meccanismi di riparazione naturale del DNA non è stato semplice. La grande sfida per i ricercatori è stata rendere le basi funzionanti nell'ambiente complesso di una cellula vivente.

E. coli
Negli ultimi esperimenti è stato sintetizzato un filamento di DNA circolare (plasmide) ed inserito in Escherichia coli. Oltre alle paia di basi A-T e C-G questo plasmide contiene anche le due migliori basi ottenute da Romesberg e collaboratori nel corso degli anni, d5SICS e dNaM. L'obiettivo finale, far sì che Escherichia coli riuscisse a replicare questo DNA per poterlo eventualmente trasmettere alle cellule figlie, è stato raggiunto fornendo al batterio le due basi artificiali e una molecola (in natura presente in una microalga) in grado di trasportare queste basi all'interno delle cellule. E’ stato così possibile dimostrare che il plasmide semisintetico può essere replicato da una cellula vivente. 
Qualcuno potrebbe sentirsi minacciato dalla possibilità che questo tipo di studi scientifici possa portare alla diffusione incontrollata di nuove forme di vita. Tuttavia, i ricercatori forniscono rassicurazioni a tal proposito, spiegando il fatto che le due basi non sono naturalmente disponibili nell'ambiente e che gli esperimenti condotti hanno dimostrato che possono essere introdotte nelle cellule solo attivando la molecola trasportatrice, senza la cui attività queste due basi sparirebbero letteralmente dal materiale genetico presente nel batterio. Il prossimo passo sarà dimostrare che le cellule viventi possono utilizzare questo DNA semisintetico per produrre l'mRNA da cui ottenere, delle proteine.


Dal Dna semisintetico, in futuro, i carburanti biologici

Con la realizzazione di un batterio con DNA semisintetico si è riusciti ad avere una specie di batteri OGM più sicuri, con i quali fabbricare nuove proteine “artificiali”. Attualmente una proteina prodotta da un batterio ingegnerizzato interferisce con le sue normali funzioni biologiche. Il risultato è un rallentamento del metabolismo del batterio ed un basso rendimento nella fabbricazione della proteina. Con l’aggiunta di nuove basi, il DNA nativo potrebbe continuare a svolgere tutti i suoi compiti garantendo una maggiore produzione della sostanza di interesse e mantenendo anche un maggior tasso di replicazione del batterio.

Campi di applicazione: batteri-fabbrica utili per biocarburanti e per programmi di depurazione ambientale; farmaci biologici, uso di batteri contro i tumori (modificando il microorganismo, insegnandogli a riconoscere una determinata proteina espressa solo dalle cellule di un certo tumore, iniettandolo nell'organismo e aspettando che distrugga solo le cellule tumorali e non quelle sane). «Sono prospettive per ora teoriche e non si sa in quanto tempo realizzabili, però la pubblicazione su Nature, almeno in linea di principio, è davvero rivoluzionaria e apre una nuova fase».


Ewen Callaway su Nature : First life with 'alien' DNA

Il team di Romesberg ha utilizzato Escherichia coli per esprimere un gene da una diatomea - un'alga unicellulare –che codifica per una proteina che permette alle molecole di basi aliene di attraversare la membrana del batterio. Gli scienziati hanno poi creato un plasmide contenente una singola coppia di basi estranee, ed inserito il ​​tutto in cellule di E. coli. Quando la fornitura di nucleotidi alieni è stata interrotta, i batteri hanno sostituito le basi straniere con quelli naturali: la capacità di controllare l'assorbimento di basi del DNA estraneo, è visto dagli scienziati come una misura di sicurezza che impedisce la sopravvivenza delle cellule estranee fuori del laboratorio. Potenziali usi della tecnologia includono l'incorporazione di un amminoacido in una proteina tossica per garantire che uccida solo le cellule tumorali, e lo sviluppo di aminoacidi fluorescenti che potrebbero aiutare gli scienziati a monitorare reazioni biologiche al microscopio. La creazione di un organismo completamente sintetico è ancora una sfida enorme.

Le biotecnologie e l’ingegneria genetica

Le biotecnologie... Molti prodotti alimentari, come il pane, il vino e lo yogurt, da migliaia di anni presenti sulle nostre tavole, sono “vivi”, perché nella loro preparazione intervengono microrganismi, ossia microscopici organismi viventi, attraverso reazioni chimiche controllate da specifici enzimi. Lo yogurt è latte fermentato, reso acido da microrganismi  che trasformano il lattosio, zucchero del latte, in acido lattico; nel vino, invece, lo zucchero dell’uva viene trasformato in alcol; il pane, infine, lievita grazie alla produzione di anidride carbonica da parte di particolari microrganismi, i lieviti. Il ruolo dei microrganismi (e degli enzimi da essi prodotti) nella produzione di questi alimenti fu individuato da Louis Pasteur nel 1876 e, da allora, l’utilizzo (consapevole) dei microrganismi ha consentito lo sviluppo di tecnologie in grado di realizzare prodotti utili per uomo: le biotecnologie.

Le biotecnologie sono dunque quelle tecnologie che utilizzano microrganismi (o cellule animali e vegetali o, ancora, gli enzimi da essi prodotti) per la realizzazione di prodotti utili per l'uomo!

Ingegneria genetica

 Il grande “salto” in avanti delle biotecnologie si realizzò solo dopo che Watson e Crick (1953) elaborarono il loro modello della struttura del DNA, identificando in questa molecola la sede delle informazioni genetiche per la produzione di qualunque proteina. La scoperta dei meccanismi che regolano la sintesi proteica ha consentito, dagli anni ’70, lo sviluppo di una tecnologia in grado di far produrre da un organismo microscopico (riproducibile in gran quantità e a un costo relativamente limitato) una proteina di un altro organismo, impossibile da ottenere in altro modo o, comunque, ottenibile (per estrazione o per sintesi industriale) in quantità limitate o solo a costi molto elevati.


Questa tecnologia, detta tecnologia del DNA ricombinante o ingegneria genetica, impiega il DNA  ricombinante, ossia una molecola di DNA ibrida, ottenuta inserendo il gene della proteina desiderata in una molecola di DNA - vettore che si introduce e si replica nelle cellule dell’organismo da cui si vuol far produrre la proteina (cellule ospiti). In pratica, da una cellula di un organismo “donatore” si estrae il gene richiesto (o, meglio, frammenti del DNA tra i quali è compreso anche quello richiesto), lo si lega a un vettore (una molecola particolare di DNA capace di penetrare in una cellula ospite) formando così un DNA ibrido, detto DNA ricombinante, che si inserisce in una cellula “ospite”, appartenente a un altro organismo. La cellula ospite, ricevuto il DNA ricombinante, acquisisce la capacità di produrre la proteina codificata da quel gene, cioè si trasforma, diventa una cellula ricombinante. La trasformazione comporta per la cellula l’acquisizione di una nuova proprietà: la capacità di produrre quella proteina. Essendo stabilmente integrato nel DNA della cellula ospite, il gene si riproduce insieme alla cellula, per cui le cellule figlie manterranno tutte la capacità di produrre la nuova proteina. Stimolando la riproduzione delle cellule ospiti (clonazione), in poco tempo si otterrà una popolazione di milioni di cellule, tutte in grado di produrre la proteina desiderata.

Le cellule che vengono utilizzate come “ospiti” del DNA ricombinante devono essere: 1) in grado di ospitare il DNA ricombinante (che va costruito utilizzando un vettore adeguato alla cellula in cui deve inserirsi); 2) facili da coltivare (si devono riprodurre rapidamente); 3) innocue (sia per il personale di laboratorio che le manipola che per il destinatario della proteina prodotta: non possono essere usate cellule di microbi patogeni, che potrebbero infettare i laboratoristi o contaminare la sostanza proteica da produrre con sostanze tossiche prodotte dal batterio stesso).

http://online.scuola.zanichelli.it/barbonescienzeintegrate/files/2010/04/V17_01.pdf

Que­sta tec­no­lo­gia per­met­te in­ter­ven­ti mi­ra­ti, che mo­di­fi­ca­no in modo spe­ci­fi­co solo i geni dei ca­rat­te­ri su cui si vuo­le agi­re. Inol­tre, le me­to­do­lo­gie odier­ne con­sen­to­no di tra­sfe­ri­re DNA non so­lo tra in­di­vi­dui del­la stes­sa specie, ma an­che tra specie diverse, spesso mol­to dif­fe­ren­ti l’u­na dal­l’al­tra. Si pos­so­no, per esem­pio, tra­sfe­ri­re ge­ni da un bat­te­rio a una pian­ta o in­tro­dur­re in un bat­te­rio un ge­ne pro­ve­nien­te da una cel­lu­la eu­ca­rio­ti­ca.

Gli sco­pi di que­sta ope­ra­zio­ne pos­so­no es­se­re di­ver­si: de­ter­mi­na­re un mi­glio­ra­men­to ge­ne­ti­co nel­l’in­di­vi­duo ri­ce­ven­te (per esem­pio, una mag­gio­re re­si­sten­za agli at­tac­chi dei pa­ras­si­ti), op­pu­re uti­liz­za­re l’or­ga­ni­smo ri­ce­ven­te per clo­na­re il ge­ne in­tro­dot­to e ser­vir­si del­la cel­lu­la ospi­te co­me una «fab­bri­ca» per la pro­du­zio­ne di mo­le­co­le uti­li.

Il pri­mo pas­sag­gio con­si­ste sem­pre nel ta­glia­re il DNA. Per ta­glia­re e ri­cu­ci­re i ge­ni so­no ne­ces­sa­ri en­zi­mi spe­ci­fi­ci (en­zi­mi di re­stri­zio­ne e li­ga­si). La lo­ro sco­per­ta è sta­ta la chia­ve che ha aper­to la por­ta al­lo svi­lup­po di tut­te le tec­ni­che di ma­ni­po­la­zio­ne del DNA.

http://ebook.scuola.zanichelli.it/sadavabiologiablu-plus/le-basi-molecolari-della-vita-e-dell-evoluzione-plus/le-biotecnologie/la-tecnica-del-dna-ricombinante-e-alla-base-delle-moderne-biotecnologie-plus#

lunedì 30 marzo 2015

BIONANO E NANOBIO TECNOLOGIE: UNA REALTA' CHE SEMBRA FANTASIA

La nanotecnologia è un ramo della scienza applicata e della tecnologia che consiste nella manipolazione della materia a livello atomico e molecolare.
L'obiettivo specifico della ricerca e dell'innovazione nel settore delle biotecnologie è sviluppare prodotti e processi industriali competitivi, sostenibili, sicuri e innovativi e fungere da motore innovativo in un certo numero di settori come l'agricoltura, la silvicoltura, i prodotti alimentari, l'energia, i prodotti chimici e la salute, nonché la bioeconomia basata sulla conoscenza.
Una rivoluzionaria applicazione bionanotecnologica è quella dei:
NANOROBOT AUTOASSEMBLANTI A DNA
I nanorobot autoassemblanti creati con la ormai classica tecnica dell'origami a DNA, che sfrutta il naturale ripiegamento della molecola in forme ben precise ed in particolare la tendenza delle basi nucleotidiche del DNA ad accoppiarsi con le loro basi complementari (per esempio l'A con la T), hanno una limitata gamma di movimenti. 




DNA origami- da: http://scitechdaily.com/


Per dotare i loro dispositivi di una gamma di movimenti più ampia e complessa di quella finora permessa, i ricercatori del Politecnico di Monaco di Baviera, si sono ancora una volta ispirati alla natura, copiando il meccanismo – basato sulla complementarietà delle forme tridimensionali - che permette a molte proteine e altre molecole biologiche di formare legami chimici relativamente deboli che possono essere prontamente interrotti quando non sono più necessari, producendo così una serie di dispositivi di DNA, che vanno da filamenti a scala micrometrica che imitano i flagelli batterici da montare come propulsori su nanomacchine, fino a un nanorobot umanoide a cui è possibile far muovere le braccia con una semplice sistema di controllo.
Schema dell'assemblaggio del nanorobot umanoide. (Cortesia H. Dietz / TUM)
http://www.lescienze.it/news/2015/03/30/news/nanorobot_autoassemblanti_mobili_dna-2545000/

Un'utile applicazione nanobiotecnologica riguarda l'uso di

NANOPARTICELLE D'ORO PER IDENTIFICARE O UCCIDERE CELLULE TUMORALI

Un gruppo di ricercatori dell’Istituto di fisica applicata del Consiglio nazionale delle ricerche e dell’Università di Firenze hanno sfruttato la capacità delle cellule tumorali di sopravvivere anche in condizioni di scarsa ossigenazione, per renderle riconoscibili da parte di nanoparticelle d’oro in grado di individuarle e distruggerle. In particolar modo ciò avviene in quanto le cellule cancerose ipossiche reagiscono alla carenza di ossigeno esprimendo sulla membrana un enzima chiamato anidrasi carbonica 9. I ricercatori in questione hanno così reso riconoscibile questa sorta di impronta da parte di nanoparticelle d’oro fornite di un inibitore dell'enzima, per esempio un sulfamidico: le nanoparticelle in tal modo identificano e attaccano le cellule tumorali ipossiche, che sono le più difficili da raggiungere con le terapie convenzionali. Una volta legate in maniera selettiva a queste cellule, le nanoparticelle possono essere attivate con un laser per scopi sia diagnostici che terapeutici. A seconda del regime di esposizione luminosa, le nanoparticelle generano ultrasuoni oppure calore, che potrebbero essere rispettivamente impiegati per l’imaging diagnostico oppure per la rimozione ipertermica delle cellule maligne. In pratica, le nanoparticelle d’oro possono evidenziare la presenza delle masse tumorali oppure distruggere con il calore le cellule che le compongono.
http://www.cnr.it/cnr/news/CnrNews?IDn=3137